Domenico De Masi, sociologo del lavoro
di Fabrizio Pirro
Domenico De Masi è stato uno degli artefici dell’affermazione e del consolidamento della sociologia del lavoro nell’università italiana e nella società italiana in generale. Della disciplina ha contribuito in prima persona ad evidenziare come fosse ineludibilmente radicata nella dimensione empirica, contribuendo in questo modo a caratterizzarla e ad emanciparla come disciplina autonoma di ricerca sul campo, con proprie tecniche e strumenti, mai però fini a sé stessi. Il contributo scientifico e il contributo sociale sono sempre stati obiettivi perseguiti congiuntamente.
Ha iniziato a farlo già nei primi anni Sessanta, in modo innovativo, direttamente sui luoghi di lavoro, acquisendo le conoscenze sulla condizione lavorativa direttamente dai soggetti. Era una modalità che anche altri futuri sociologi stavano iniziando ad adottare, ognuno per suo conto - Luciano Cavalli tra gli immigrati nelle fabbriche genovesi; Aris Accornero tra gli operai piemontesi; Rita di Leo tra i braccianti pugliesi; il gruppo di Quaderni rossi con Vittorio Rieser alla Fiat. De Masi partecipò ad una ricerca, purtroppo rimasta inedita, nello stabilimento Italsider di Bagnoli.
In seguito, si occupò di selezione e formazione del personale prima presso un’azienda del gruppo Finsider e dal 1966 all’Ifap. In parallelo iniziò la sua carriera accademica, prima a Sassari, poi a Napoli, infine a Roma (1977), inizialmente come docente di Sociologia e poi di Sociologia del lavoro, incarico che tenne, in un lungo sodalizio con la seconda cattedra tenuta da Angelo Bonzanini, prima alla facoltà di Magistero, poi alla neonata facoltà di Sociologia, dove fu tra gli artefici della costituzione di un dipartimento volutamente teso alla ricerca interdisciplinare e alla dimensione applicativa della ricerca come il Dipartimento Innovazione e società (DIeS), animando il dibattito sui cambiamenti nel lavoro con i colleghi romani Aris Accornero e Federico Butera. Optò poi per la Facoltà di Scienze della comunicazione, della quale divenne Preside.
Nel 1973 cura Sociologia dell’azienda, dove vengono resi disponibili in lingua italiana contributi fondamentali. Una raccolta di testi che costituiscono i primi materiali utili (anche) per i corsi universitari. Contributo fondamentale per la didattica e non solo saranno anche i tre volumi collettanei del Trattato di sociologia del lavoro e dell’organizzazione (1985-1987) curati con Bonzanini, dove i principali studiosi, non solo italiani, trattano le tante questioni oggetto di studio della disciplina. Sono materiali fondamentali per i corsi all’università e per la pratica didattica innovativa incentrata sul lavoro di gruppo, con l’assegnazione di vere e proprie ricerche a chi frequenta il suo corso. Una possibilità di apprendimento quasi unica, un coinvolgimento quasi assoluto con la pratica della ricerca potenziato dal frequentare due annualità, grazie al quale si sono formate alla pratica (appassionata) della ricerca sul campo generazioni di sociologi (me compreso). Tra tutti i laureati in Sociologia queste esperienze diventano motivo di orgoglio e distinzione: un “dentro” e un “fuori”. Particolare attenzione è poi dedicata anche alla formazione avanzata, post-universitaria, con la costituzione della Scuola di specializzazione in scienze organizzative S3.
Nel 1978 è tra gli artefici della prima rivista italiana specificamente intitolata e dedicata alla disciplina, ancora oggi pubblicata. L’interesse che nutriva per la didattica e la centralità che attribuiva alla disciplina sono già chiari dal primo numero della rivista, da lui curato, dedicato a L’insegnamento della sociologia del lavoro in Italia. Altri ne verranno su giovani e lavoro e sulle forme organizzative. Qualche anno prima era stato Capo redattore di un’altra rivista, Sociologia dell’organizzazione, che, sebbene abbia avuto vita breve con soli quattro numeri a cavallo tra il 1973 e il 1974, si caratterizzava come una rivista innovativa per i temi e i contesti analizzati. Lo dimostra proprio il contributo di De Masi sull’articolato progetto di ricerca sui lavoratori dell’industria steso nel 1908 da Max Weber per il Verein für Socialpolitik. Quello che viene commentato e tradotto è un Weber “empirico”, praticamente assente fino a quel momento nella diffusione della sociologia in Italia, tutta concentrata sui saggi metodologici più teorici e sullo studio in Economia e società delle forme del potere e degli apparati amministrativi.
Sul piano della ricerca risultano fondamentali per la conoscenza della condizione lavorativa le due grandi survey su Il lavoratore dell’industria (1974) e Il lavoratore post-industriale (1985). L’indispensabilità della ricerca è evidente anche nel Manuale di ricerca sul lavoro e sulle organizzazioni (1985), testo corale da lui curato nel quale senza nessuna discriminazione preconcetta le diverse tecniche di indagine vengono presentate nei loro caratteri e nelle loro applicazioni, mostrando come l’adozione delle tecniche di indagine venga dalla precisazione dell’oggetto e dal campo di indagine piuttosto che da scelte determinate a priori. Il testo mostra inoltre la specificità tematica - e quindi delle tecniche - della sociologia del lavoro, intesa come disciplina a sé, qualcosa di più specifico di una sociologia che studia i fenomeni legati al lavoro. Introdurrà poi con diverse ricerche il metodo predittivo Delphi, per una necessaria ricaduta sociale della conoscenza sociologica, come aveva già fatto con gli studi svolti durante l’edificazione del quartiere Matteotti a Terni negli anni Settanta e farà fino a quelli sul lavoro da remoto e il reddito di cittadinanza.
Coerentemente con gli interessi della disciplina, accanto allo studio della condizione lavorativa affronta lungamente il tema del senso del lavoro per i soggetti e per la società in generale. Ciò lo porta ad interrogarsi sui caratteri possibili di un lavoro che non entri in conflitto con i bisogni di chi lo svolge e tutto il suo scrivere su creatività, ozio e equilibri tra lavoro e vita si iscrivono coerentemente in questa prospettiva. Su tutti i testi al riguardo va (ovviamente) ricordato L’ozio creativo, quanto meno per il numero di ristampe avute, che viene pubblicato sotto forma di dialogo, la prima volta nel 1995 dalla Ediesse, casa editrice della Cgil.
Incentra da un lato la sua attenzione sulle forme organizzative che riconoscono spazi di creatività, come ad esempio il lavoro di gruppo, su cui ricostruisce le esperienze storiche di diversi gruppi “creativi” in L’emozione e la regola (1990); su quelle che potrebbero offrire maggiore autonomia a chi le svolge, sia nello svolgimento del lavoro sia nella conciliazione necessaria tra vita e lavoro, dal telelavoro, tra i primi a proporne la diffusione, fino alle forme più avanzate del lavoro da remoto. Alla ricerca di modalità lavorative soddisfacenti si affianca poi una riflessione più ampia sulla gestione dell’economia e della cosa pubblica, con entrambe che dovrebbero avere (ma non hanno) come obiettivo la felicità umana, temi affrontati in La felicità negata (2022) e in Lo Stato necessario (2021). Dall’altro, a partire da L’avvento post-industriale (1985), concentra lungamente la sua attenzione sulla nuova centralità che la conoscenza assume e assumerà nello svolgimento del lavoro e nell’assetto sociale più complessivo.
Analisi più approfondite andranno svolte ma il percorso scientifico di De Masi appare come quello di un ricercatore che accanto alla conoscenza sistematica del suo campo di studio non può fare a meno di immaginare le ricadute di quanto apprende e fa apprendere. Non rifugge nell’utopia fine a sé stessa quanto piuttosto nell’utopia possibile; realisticamente scettico ma inevitabilmente consapevole che la possibilità che ciò si realizzi sia tutta nella capacità di immaginazione degli attori sociali, che il lavoro del ricercatore può contribuire a rendere più consapevoli.